Croce nella critica letteraria del Novecento (1967)

Croce nella critica italiana del Novecento, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 71°, s. VII, n. 1-2, Firenze, gennaio-agosto 1967, pp. 4-11; poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit. e in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri scritti di metodologia, cit. È il testo di una conferenza letta al “Terzo Programma” della Rai nel 1966.

CROCE NELLA CRITICA LETTERARIA DEL NOVECENTO

La critica letteraria costituisce senza dubbio una delle attività piú cospicue e feconde dell’epoca – dall’inizio del secolo alla seconda guerra mondiale – dominata prevalentemente, anche se non esclusivamente, dalle filosofie e metodologie idealistiche, e soprattutto da quella crociana. E certo – fuori di ogni tentazione di agiografia nazionale – la critica letteraria è stata una delle attività che danno al nostro recente passato un’effettiva forza e dignità, e che oggettivamente si oppongono alle sue facili liquidazioni e squalifiche globali, quasi si sia trattato di una specie di terra bruciata che obbligherebbe a ricominciare tutto da capo e a discutere solo sulla base di proposte interamente nuove: le quali molte volte si rivelano poi nella loro realtà di vecchie formulazioni spesso già logorate nelle loro stesse culture di origine e dentro l’ambito stesso delle ideologie che le motivano.

Ciò non vuol dire affatto chiudersi in un cauto isolamento e in una miope volontà di pura e semplice continuità tradizionale e rifiutare, con preclusioni scettiche e pregiudiziali, quanto di fecondo e valido nasca da nuove esigenze e magari provenga da altre tradizioni e culture, meno conosciute e approfondite precedentemente. Ma vuol dire aver fatto bene i conti con le grosse esperienze del nostro recente e meno recente passato in tutta la sua complessità e nella sua interna dialettica.

Ogni rivoluzione o rottura, che non sia velleitaria e snobistica, presuppone comunque la conoscenza, la comprensione, il giudizio di ciò da cui ci si distacca. In questa prospettiva di comprensione e di giudizio dell’epoca che può denominarsi idealistica, si impone anzitutto alla nostra attenzione storica la considerazione della forza di iniziativa metodologica e critica di Benedetto Croce nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nel primo decennio del nuovo secolo, quando essa si impostò energicamente di fronte al metodo storico-positivistico e alla sua sproporzione fra dignità e fertilità di lavoro preparatorio e di disciplina scientifica, e scarsissimo senso della poesia e della stessa storia, e di fronte alle spinte velleitarie dell’estetismo, e dello spiritualismo, incerto fra residui positivistici e fermenti non inutili, ma di per sé insufficienti, nel tentativo di sbloccare le chiusure del piú pesante positivismo e naturalismo.

All’appiattimento della poesia nella vita meccanica dei generi letterari in una pura trascrizione di biografia o in una naturalistica fotografia, cosí come alle ambigue esaltazioni dell’«arte per l’arte», dell’arte come vita e della vita come arte, del poeta «fanciullino», del misticismo edonistico dei «cavalieri dello spirito», il Croce oppose il rilancio della eredità desanctisiana-vichiana e riportò la critica alla sua funzione di interpretazione, di valutazione, di collaborazione con la poesia del passato e del presente. E la distinse energicamente sia dalla sua risoluzione nell’erudizione e nella strumentale preparazione filologica ed erudita (di cui pur assorbiva gli elementi di serietà e di rigore erudito), sia da quella degustazione estetizzante e spiritualistica (fra le poetiche del D’Annunzio, del Pascoli, del Fogazzaro e i loro fragili corrispettivi critici) di cui pure riassorbiva, ad altro livello di organicità e di vigore, la tensione all’immagine e all’immediatezza poetica, entro le posizioni dell’Estetica e nell’operazione critica «militante» dei primi saggi sulla «letteratura della nuova Italia».

Su quella base si impostò il fecondo dialogo del Croce con gli altri rappresentanti piú vivi e meno vivi della nuova critica italiana di primo Novecento: donde anche la falsità di immagini tuttora correnti di un Croce «splendido isolato», dittatore prepotente e solo sterilizzante di nuovi germi vitali, freddo e meccanico applicatore in critica delle sue posizioni estetiche e metodologiche. Questo deve essere ben compreso sia in generale sia nella varia forza di tale atteggiamento in fasi assai precisabili: il Croce fu, per lungo arco di tempo, formidabile soggetto ed oggetto di vivo dialogo metodologico e critico. E la sua presenza appare tanto piú vera e valida quanto piú reinserita in quel dialogo, in cui egli contribuí a stimolare la stessa forza dei suoi avversari, ricavando a sua volta dalle sue polemiche e discussioni con quelli un vivo incentivo allo sviluppo della propria originale problematica, internamente collegata da un vivo ricambio fra meditazione estetica, metodologica e critica effettiva.

Si pensi cosí agli anni che precedono la prima guerra mondiale, quando accanto al Croce affioravano tumultuosamente esigenze che in parte utilizzavano la sua lezione e in parte reagivano, anche violentemente, alle prime posizioni crociane: su vie fra tardo-romantiche e decadenti, come nel caso del Thovez, o in forme di istanze piú velleitarie e pur non prive di stimoli, come nel caso del Borgese, o in forza di esigenze piú profonde ed autentiche – anche se non potute portare fino in fondo – nei vociani piú originali, come Slataper e Boine; o nella serissima ricerca critica psicologico-storica di un Donadoni, o nella proposta del «critico-lettore» e della «religione delle lettere» del Serra. Con il risultato di un dialogo vivacissimo e teso, e che sarebbe molto importante ristudiare proprio nella sua intera realtà e nelle stesse offerte di interessanti spunti non crociani o anticrociani: rapporto concreto uomo-poeta, esigenze del «grande» piuttosto che del «bello», fondo tragico della poesia, critica come ricerca di «anime», impegno totale del critico con se stesso, lettura «strenua» dei testi e attenzione stilistica. Per non dire dell’interesse sino della richiesta paradossale, avanzata dal giovane Cecchi, della necessità di un’estetica diversa per ogni diverso poeta, o dell’interesse di certe scelte di poeti sintomatici entro la nostra tradizione (Dante, Michelangelo, Campanella, Leopardi) e della nuova apertura alla lettura contemporanea e all’identificazione dei nuovi poeti, in contrasto e in rapporto diverso con la polemica del Croce contro il decadentismo: polemica che finiva per estendersi sempre piú pericolosamente alla nuova poesia postsimbolistica e alle sue scaturigini europee del secondo Ottocento.

Eppure certe polemiche che pensavano di cogliere interamente il Croce nel chiuso delle sue posizioni estetiche e critiche dei primissimi anni del Novecento venivano poi a ritrovarsi sfasate e sfocate, quando alle prime sue formulazioni piú anguste e ancorate a un senso troppo limitato dell’intuizione-espressione si sostituivano le sue nuove elaborazioni metodologiche e critiche, stimolate da quello stesso dialogo e dalla incessante fecondità di sviluppi e ricambi interni del suo pensiero e della sua coerente attività critica.

Cosí le posizioni iniziali si ampliavano nella complessa problematica della intuizione lirica, della cosmicità e totalità dell’atto estetico, e in quella interpretazione delle grandi personalità poetiche di Ariosto, Shakespeare, Goethe, a cui corrispondevano l’articolarsi dinamico e circolare della sua filosofia dello spirito, l’approfondirsi del suo storicismo «assoluto», la stessa altezza di una attiva, operosa saggezza, confortata da quel senso della libertà che, mentre rivelava il suo fondo conservatore nei gravi errori di iniziale interpretazione del fascismo, si rafforzava poi nella piú decisa opposizione alla dittatura affermata e trionfante: in anni in cui le stesse opere storiche e critiche del Croce acquisteranno valore esemplare di serietà e di cultura contro la falsa cultura ufficiale e la servilità o il silenzio di tanti «letterati puri».

Anche allora poté sembrare (come sotto un certo aspetto avveniva) che lo stesso senso tanto piú complesso e supremo della poesia slittasse tuttavia nel Croce verso una concezione di eternità metastorica e verso un certo livellamento delle concrete personalità come paradigmatici esempi della poesia eterna. E si poté cosí diffidare della stessa pregnante formula romantico-classica della poesia quale «sentimento gagliardo che si è fatto tutto rappresentazione nitidissima». Tanto piú quando, nel successivo passaggio alla Poesia di Dante e ai saggi di Poesia e non poesia, il monografismo monadistico, il distinzionismo esasperato e il «purismo» estetico condussero il Croce al canone di «poesia e non poesia» e ai clamorosi casi critici della interpretazione della Divina Commedia come separazione di poesia (o addirittura di liriche indipendenti) e struttura o romanzo teologico; o del giudizio sul Leopardi in cui la non congenialità del critico con l’autore persino in termini di Weltanschauung e l’incomprensione della posizione ideologica e storica leopardiana (accresciute dalla stessa polemica reazione al «leopardismo» neoclassico della «Ronda») sollecitavano il Croce a rivelare appunto molto pesantemente, in quel caso estremo, alcuni elementi di fondo della sua posizione estetica e del suo «purismo» distinzionistico; il quale non solo tagliava spesso nel vivo di un’opera e persino di un singolo componimento poetico, ma piú gravemente separava la forza poetica dai suoi nessi, radicali e operanti, con le altre forze della personalità e della storia.

Sicché proprio questa fase evidenziante dei piú gravi limiti della posizione crociana favoriva l’affermazione del crocianesimo piú ortodosso e scolastico e di una critica «estetica», che magari invitava il Leopardi a tratteggiare meglio il personaggio di Silvia piuttosto che a sviluppare la figura «allegorica» della speranza, o trovava nei Sepolcri un contrasto insanabile fra le illusioni e la concezione materialistica là dove proprio quel contrasto era la molla dialettica della poesia di quel carme. E, a ben guardare, le posizioni critiche crociane trovavano allora molto spesso pratica convergenza con quella critica della «poesia pura» pur tanto combattuta dal Croce, e che per altre vie (quella della ripresa impoverita del Serra e del Carducci e della lettura sensibilistica) giungeva a conclusioni non dissimili su molti casi concreti (le quattro o cinque «poesie» del Leopardi), anche se immettevano nella generale tensione critica del tempo una pur importante lezione di strenua lettura e (specie nel caso del De Robertis) singolari e personali qualità di finezza e di auscultazione della parola poetica, mentre contemporaneamente perdeva interamente di vista l’organicità, complessità e storicità della poesia.

Tuttavia anche in questa fase (in cui gli stessi limiti della posizione crociana corrispondevano ad una tensione estrema all’identificazione della poesia e alla storiografia individualizzante contro ogni pericolo di astrattezza e di determinismo sociologico) l’autentica vocazione critica del Croce (coerente alle sue istanze estetiche, ma non priva certo di una viva duttilità di giudizi stimolati dai singoli autori studiati) si rivelava nella fertilità di giudizi, e di atteggiamenti del giudizio, a contatto con i molteplici casi individuali degli scrittori ottocenteschi italiani ed europei in una interna articolazione della «poesia» e della «non poesia», che anticipava la successiva distinzione di poesia e letteratura e la nuova articolazione del fatto espressivo in genere. Da quella ricca esperienza critica il Croce risaliva poi, negli anni fin verso il ’30 (attraverso lo stesso ricambio interno con l’attività storiografica e l’impegno etico-civile della sua opposizione alla dittatura), ad una maggiore ampiezza di prospettive di storia letteraria nella Storia dell’età barocca e, attraverso aspetti piú specificamente letterari di questa (le varie forme della letteratura del Seicento), a quella considerazione della cultura e tradizione letteraria e della forza e complessità della poesia d’arte, che si consolidava – con grossi contributi rinnovatori di singoli problemi critici nella letteratura italiana fra Trecento e Cinquecento – in Poesia popolare e poesia d’arte.

Volume essenziale nello sviluppo crociano, e, a suo modo, risposta originale ad esigenze di una nuova attenzione al valore dell’«arte», della tecnica letteraria, del linguaggio, appoggiate alla ripresa di motivi ed esempi del Carducci e di studiosi come il Parodi e soprattutto il De Lollis (donde la fertilità di questi incontri con la lezione crociana nell’attività critica di un Petrini) e persino a quella nuova prospettiva militante della «letteratura» che veniva sostituendo il programma della «poesia pura»: e alle cui esigenze – seppure in modi diversi – ancora, a sua volta, il Croce poteva rispondere, nella Poesia del 1936, con la distinzione di poesia e letteratura, con una diversa configurazione positiva della «non poesia» e con una generale maggiore capacità di articolazione del fatto espressivo.

Affioravano intanto nuove proposte estetiche e metodologiche di varia consistenza, legate sia a diversi sviluppi dello stesso idealismo, sia a sollecitazioni di diverse esperienze europee (che – malgrado la chiusura dell’epoca della dittatura – penetravano nella nostra cultura ravvivando a volte prospettive di pensiero compresse dalla forza espansiva dell’idealismo crociano e gentiliano), sia a quello stesso stimolo della nuova letteratura che richiedeva alla critica diversa capacità di comprensione e di collaborazione: sí che molti autori decisivi – Pirandello o Svevo – della nostra letteratura novecentesca vennero recuperati alla comprensione critica contro il giudizio o il silenzio del Croce.

Si pensi – per le nuove proposte estetiche – al Banfi, al Gargiulo, al Tilgher, al Baratono, e poi ancora al Calogero e allo Spirito. E, per l’attività critica, si pensi al momento della critica ermetica, a base mistico-esistenzialista, ai nuovi studi di poetica, ai primi tentativi di una critica stilistico-filologica.

E contemporaneamente si consolidavano, con cresciuta autorevolezza e forza concreta, alcune forti personalità critiche, che tutte portavano elementi effettivi di arricchimento e di approfondimento, di spostamento, rispetto alla stessa lezione crociana, in direzioni sempre meno configurabili nei limiti di una precisa e unitaria «scuola» crociana, anche quando al Croce piú direttamente si richiamavano: come avveniva nel caso di critici militanti come il Cecchi e il Pancrazi o in quello, cosí cospicuo e originale, del Momigliano, o in quelli di crociani «eterodossi» come il Flora o il Russo.

Fu l’epoca di affermazione di complesse esperienze critiche avviate spesso sin dal primo ventennio del secolo e realizzanti la forza, l’ispirazione, l’operosità concreta di una grande generazione critica, attiva nel rapporto fra grandi monografie (dal Verga del Russo al Manzoni del Momigliano, al D’Annunzio del Flora al Foscolo del Fubini), commenti critici (dai numerosi commenti del Momigliano a quelli del Russo o del Flora) e storie letterarie (da quella ancora del Momigliano, a quella del Flora, a quella del Sapegno, a quella piú tarda e incompiuta del Russo).

Proprio l’attività cosí vigorosa di Luigi Russo richiama insieme – entro lo sviluppo della critica appoggiata alla lezione del Croce e in realtà mossa verso posizioni che ne mettevano in discussione punti essenziali – l’importanza delle complesse sollecitazioni derivate sia da una piú diretta ripresa del metodo desanctisiano, sia dall’estetica e dalla stessa attività critica di Giovanni Gentile.

Quest’altra maggiore personalità dell’idealismo italiano, attiva sin dall’inizio del secolo, ebbe infatti – seppure su di una base di esperienza critica concreta assai contratta e limitata – una spiccata presenza anche in campo metodologico-critico, sia con l’aspetto unitario della sua filosofia attualistica che reagiva al distinzionismo crociano e poteva cosí influire a correggerne gli eccessi entro la ripresa della base crociana da parte di altri critici, sia con grossi interventi sulla poesia di Jacopone, di Dante, di Leopardi e di Manzoni, da cui scaturiva un importante, anche se spesso confuso, stimolo ad interpretazioni piú «intere» di opere e personalità poetiche nel piú forte rapporto istituito fra pensiero e poesia e persino a possibili ricostruzioni della storia letteraria attraverso la simbolicità storica dei singoli poeti: che fu appunto elemento cospicuo nella ben piú operante prospettiva critica del Russo, con la sua proposta di uno storicismo a base lirico-simbolica che unificava le esigenze individualizzanti del Croce e quelle piú sociologiche-idealistiche del Gentile.

E proprio il Russo, a nostro avviso, può segnare il limite massimo di sviluppo e duttilità della metodologia critica riportabile, nei suoi centri essenziali, ad una generale o predominante concezione estetica e filosofica idealistica, e condotta sino alle sue piú originali e vigorose conseguenze metodologiche in quei volumi sulla Critica letteraria contemporanea che uscivano negli anni stessi della seconda guerra mondiale, e in un’epoca in cui la diretta presenza e influenza del Croce andava progressivamente indebolendosi e perdendo di attrazione e di forza di dialogo con nuove istanze della critica: anche se il concreto esercizio critico del Croce ebbe ancora attuazioni notevoli e interessanti sia nella impostazione di linee storico-letterarie (si pensi alla Letteratura italiana del Settecento del 1949 e all’interesse della giustificazione della funzione dell’Arcadia, educatrice di letteratura e di gusto, e a sua volta provocata dal fecondo contatto della cultura italiana antibarocca con il razionalismo), sia in un particolare e fertile recupero di indicazioni concrete su scrittori e poeti del pieno e tardo Rinascimento nei volumi che portano questo titolo.

D’altra parte la metodologia russiana (qui considerata soprattutto per il suo significato storico) apriva la possibilità di sviluppo di uno storicismo critico che di fatto spingeva a travalicare le stesse dimensioni della filosofia idealistica, tanto da permettergli importanti incontri con lo storicismo di ascendenza marxista, specie nelle sue riprese della importantissima esperienza del Gramsci; la quale, se, tutto sommato, non appare capace di costituire una intera base estetica, metodologica e critica da contrapporre alla tanto maggiore larghezza ed esperienza della base crociana, offrí certo —resa tanto piú duttile e avvertita proprio dal suo stesso rapporto di discussione e polemica con il Croce – indimenticabili punti di appoggio ad istanze storicistiche piú concrete e «integrali».

Al termine di questo rapidissimo quadro di un’epoca cosí lunga, ricca e complessa e perciò mal rappresentabile in uno schema univoco e rigido (quanti nomi da fare, quanti nomi fatti e che avrebbero necessità di spiegazioni esaurienti del loro significato!), un discorso anche sommario sul nostro attuale rapporto con quell’epoca e con l’opera del Croce, che in essa si profila come la piú imponente ed organica, richiederebbe precisazioni molteplici e una ulteriore considerazione della zona che dalla fine della seconda guerra mondiale giunge fino a noi.

È chiaro infatti che, come è impossibile riferirsi al Croce senza reinserirlo continuamente entro la storia viva e nel suo dialogo con le altre personalità di quel tempo, cosí è anche difficile impostare un confronto diretto fra le esigenze critiche attuali e quelle dell’epoca considerata, entro il raggio predominante dell’idealismo, senza riferirsi agli anelli intermedi dello sviluppo della critica nel successivo ventennio, alle polemiche anticrociane e anti-idealistiche specie nel primo decennio del dopoguerra, ai rilanci di personalità e metodi non crociani o precrociani, all’impostazione di nuove linee di metodologia e critica, motivate spesso dall’ingresso, nella nostra cultura, di metodi ed esempi derivanti da altre culture e tradizioni.

Né d’altra parte è facile trovare una base di minimo comune denominatore nella situazione attuale, caratterizzata – come tutta la cultura d’oggi – da una molteplicità di spinte e prospettive sempre piú rapidamente mutevoli e perciò continuamente variabili nei loro stessi obbiettivi polemici.

Sicché sarà da osservare obbiettivamente che la stessa storia del primo Novecento critico, la sua valutazione, il rapporto di dissensi e magari di motivato rifiuto o viceversa di dialogo non tutto chiuso con essa, implicano un tanto piú inevitabile orientamento particolare, difficilmente estensibile a generale orientamento contemporaneo.

Tuttavia sarà pur lecito almeno raccogliere, come premessa a piú particolari ripensamenti e giudizi, alcuni punti di valutazione della metodologia e critica del Croce e delle metodologie e critiche piú riportabili ad una generale ispirazione idealistica e confrontarle soprattutto con una prospettiva che tenda ad uno storicismo piú concreto e pur coerentemente teso ad una sua funzione critica, interpretativa e valutativa.

E, d’altra parte, alla luce di altri generali orientamenti, piú volti unilateralmente all’analisi di linguaggio e di stile (e spesso esasperanti l’insufficiente storicismo crociano fino ad un’assoluta astoricità e immobilità della poesia) o piú volti alla ricerca della origine tutta inconscia della poesia (sino a farne il risultato di traumi e complessi psicologici), si potrebbe puntare piuttosto su altri motivi di dissenso: insufficienza di analiticità e di comprensione dello stile, genericità di formule piú pertinenti al «mondo» che alla forma concreta degli scrittori, mancanza o rifiuto di filologia e tecnica, o ignoranza e squalifica, per preclusione razionalistica-idealistica, della lezione della psicanalisi o di esperienze irrazionalistiche. Guardando soprattutto al Croce e alle sue posizioni piú centrali e peculiari ci sembra di poter cosí indicare alcuni fondamentali limiti e pericoli della sua concezione della poesia, e della sua metodologia e critica.

Anzitutto il «purismo» estetico, la distinzione e addirittura, di fatto, la separazione intransigente fra la poesia e le altre forze dell’uomo e della storia che rischia di metter la poesia in un piano metastorico, di perdere la concreta genesi storica entro i nessi profondi della personalità e della situazione storico-personale dello scrittore, di concepire la poesia come un elemento celeste, un nucleo assolutamente originario e unico che emerge «malgrado» o indifferentemente rispetto alla intera tensione spirituale, culturale, ideologica, vitale del poeta.

Da qui la dura separazione fra biografia poetica e biografia pratica, la svalutazione del «farsi» della poesia e del suo dinamico svolgimento, la recisa squalifica dell’attività tecnica (e quindi del lavoro di consolidamento e realizzazione nell’opera effettiva attraverso il complesso tormento della elaborazione poetica) e la negazione sostanziale di ogni vera possibilità di storia letteraria che non si risolva in serie di monografie e, all’interno di queste, in serie di opere e magari di singoli momenti «poetici».

Da qui il rifiuto (ribadito fino all’ultimo dal Croce) di ricercare nell’opera del poeta una linea direttiva, un aspetto di consapevolezza operativa, come se questo fosse un elemento impuro ed intellettualistico intruso arbitrariamente nella pura decisività ispirativa e fantastica.

Da qui ancora la scarsa considerazione delle prospettive pertinenti non solo alle direzioni operative dei singoli poeti, ma di quelle duttilmente legate alle tendenze di un’epoca e persino di una dimensione artistica particolare. E si pensi in proposito, ad esempio, all’incomprensione crociana della dimensione teatrale che ha finito per accentuare la limitatività dei concreti giudizi crociani su Pirandello, Alfieri e magari Metastasio e Goldoni, di cui si perdeva la prospettiva teatrale e quindi la comprensione della particolare direzione artistica del loro linguaggio e delle loro impostazioni in confronto con una presunta necessità di una «lettura lirica» delle opere teatrali. O ancora il fondo classicistico (e non sempre «classico») della «nitidissima immagine» che finiva per precludere la comprensione di direzioni poetiche sollecitate da altre visioni della vita e tese a forme apparentemente «non finite» o «impure» e «oscure»: dal caso di Michelangelo scrittore a quello di Hölderlin, a quello della poesia simbolista e postsimbolista e in genere della letteratura contemporanea. Considerazioni che tutte riportano ad una piú generale e diversa prospettiva addirittura sull’uomo e sulla sua storia, nonché sulla portata delle stesse idee crociane di «libertà» nel loro limite classista e conservatore.

Sicché, anche pensando ad altre prospettive piú storicistiche e storico-critiche del periodo idealistico, un sostanziale limite generale può avvertirsi nella insufficienza della ricerca di una genesi storica della poesia e nella tendenza ad erigere un elisio platonico o cielo metastorico e soprastorico della poesia. Certo, proprio questa ultima indicazione che coinvolge lo stesso senso della poesia, della sua natura, nel suo «effetto» nel lettore e nella storia degli uomini (e quindi degli stessi rapporti fra critica e poesia), condurrà insieme a riconoscere la forza ispirativa di un’epoca e di una critica che, variamente, e non per semplice evasività (piú chiara in certe versioni di «critica pura» contrapposte a volte anche in tempi recenti al Croce e allo storicismo idealistico con discutibilissima validità), vissero fortemente una generale tensione di «valori» e vollero sfuggire al supremo pericolo di perdere il valore peculiare della poesia magari in una indistinta unità o in una sua strumentalizzazione faziosa o in un livellamento tecnicistico e documentaristico. Donde le stesse «interne» esigenze del distinzionismo e di tanti altri motivi, sopra indicati come limiti, rispetto ad altre possibilità di prospettive critiche, in rapporto con altre visioni generali della poesia e della storia.

Infine, da una parte sarà da ricordare ancora – alla luce di quanto si è detto circa la complessità della critica del periodo del primo Novecento – che in quella stessa epoca prevalentemente dominata dall’idealismo e in quegli stessi critici che pur si rifacevano a posizioni idealistiche di base si espressero spunti ed istanze che già allora poterono sollecitare, per sviluppo e discussione, prospettive tuttora vive ed operanti e mal configurabili sotto l’etichetta frettolosa e tendenziosa di «tardo idealismo» o di idealismo e addirittura crocianesimo «di sinistra». Donde la difficoltà di tagli totali e indifferenziati.

D’altra parte si dovrà pure riconoscere che di quell’epoca e del Croce non solo resistono moltissime opere e giudizi concreti che un critico attuale non può ignorare come base di discussione entro singoli problemi critici di singoli scrittori ed epoche letterarie, ma che i loro stessi problemi di fondo provocano ancora, a nuova e magari diversissima condizione di livello e prospettiva, discussione tutt’altro che inutile e possono aiutare concretamente a rifiutare ricadute grossolane e a tanto meglio cercare altre vie di soluzione piú profonde ed organiche, piú consapevolmente rapportate ad altre concezioni e direzioni.

Cosí, come non avvertire, proprio di fronte a tanti scivolamenti nella semplice registrazione statistica e descrittiva dei modi stilistici, il richiamo, che proviene dal Croce e da tanti critici dell’epoca idealistica, al giudizio, alla interpretazione, alla valutazione, alla identificazione della poesia e della sua funzione e forza?

Tutte cose da far valere diversamente e con diversa complessità e con diverso senso della stessa poesia e dei suoi rapporti con la storia e con la vita, ma da non perdere nella semplice misurazione tecnicistica o considerazione documentaristica della poesia. E come non avvertire almeno ancora il richiamo generale alla funzione di «comunicazione» della critica, troppo spesso perduta sin nelle forme di un linguaggio tutto specialistico o preziosamente sfuggente e cenacolare?

E ci pare significativo il fatto che proprio da parte di molti risoluti avversari del Croce, in questi giorni celebrativi del centenario crociano, siano stati espressi un riconoscimento e un omaggio – non tutto convenzionale – non solo della grandezza e dell’importanza storica del pensatore, del metodologo, del critico, ma del valore del suo esempio e del suo stimolo di organicità, di coerenza, di coraggiosa autocritica, di profonda chiarezza e serietà razionale, intellettuale e morale.

Riconoscimento che implica l’avvertimento – speriamo non passeggero – di certe urgenti necessità della piú generale situazione critica e culturale attuale e quindi tanto piú impongono – specie a quelli che l’hanno finora evitato – un serio ripensamento del nostro passato, tutt’altro che inutile ai fini stessi di una maggiore presa di coscienza delle condizioni e dei doveri del nostro presente.